Gneo Pompeo Magno - Il Sapere Storico. De Historia commentarii

Il Sapere Storico
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Articolo a cura di Andrea Contorni R.

L'epopea di Gneo Pompeo, l'Alessandro Magno romano

Il successo militare o l'ascesa in politica non sempre vengono costruiti unicamente sul talento individuale, sul coraggio o sulla perseveranza. Spesso intervengono altri fattori meno nobili, quali la fortuna, l'opportunismo, la crudeltà o il fare di necessità... virtù. Sono situazioni attuali con le quali ci confrontiamo quasi ogni giorno, ammirando l'interprete valoroso di turno o guardando con sospetto chi sembra essersi fatto strada nella vita con mezzi più o meno leciti. Roma Antica è stata la madre della civiltà, del diritto, dell'ingegneria civile e militare, della disciplina in battaglia. Il rovescio della medaglia la vide primeggiare anche nella corruzione politica, nella snervante burocrazia, nelle lotte intestine di uomini potenti per la conquista di un potere ancor maggiore. L'Urbe con le sue contraddizioni è stata l'ombelico del mondo conosciuto, ben oltre i fasti della società greco-ellenica dalla quale ha tratto ispirazione e modelli, facendoli propri. Un esempio di società giunto fino ai nostri tempi con tutti i vizi e le virtù conseguenti. La Storia di Roma pullula di uomini che tentarono la scalata al vertice con tutti i mezzi a loro disposizione. Nell'epoca tardo-repubblicana ad esempio, al crepuscolo di un sistema governativo divenuto "stretto" per le mire dei singoli, tre individui mossero le loro pedine sulla scacchiera politica, giocando la partita più importante della propria esistenza. Sto parlando dell'uomo più ricco di Roma, Marco Licinio Crasso, del patrizio che viveva nella Suburra, Gaio Giulio Cesare e dell'Alessandro Magno capitolino, ovvero Gneo Pompeo. Come si legge dal titolo, questo ultimo è il protagonista del nostro articolo.

Dal Piceno alla guerra civile

Similmente al Macedone, anche Pompeo fu Magnus. Alessandro conquistò con le sue falangi un impero di proporzioni immani, dalla Grecia all'India, Egitto incluso. Fondò città, promosse una sorta di integrazione culturale tra i popoli e divulgò l'ellenismo in tutte le terre da lui governate. È innegabile che essendo un uomo, neppure Alessandro è stato esente da errori e da qualche nefandezza. Parliamo comunque di uno dei più valenti condottieri dell'antichità. Pompeo dimostrò in alcune occasioni un certo talento militare, meno in politica non essendo dotato di quell'ars oratoria, tanto cara all'homo novus Cicerone. Era comunque un uomo affabile, mai sopra le righe. Ispirava sicurezza e una certa autorità. Popolo e Senato gli riconoscevano un comportamento da "buon romano" (bonus cives). Analizzando la sua esistenza, le imprese da lui promosse e l'epilogo a cui andò incontro, sovviene il dubbio di trovarsi dinanzi ad un personaggio spesso sopravvalutato, in verità più dai contemporanei che da chi venne dopo. Cerchiamo a questo punto di farci una nostra opinione in merito. Pompeo è stato veramente un valente condottiero oppure di "grande" ebbe solamente l'epiteto?

Egli nacque nel 106 a.C. da una ricca famiglia di estrazione rurale del Piceno. Il padre, Gneo Pompeo Strabone, generale della Repubblica, console e senatore, comandava ben tre legioni di veterani durante la guerra sociale nell'89 a.C. Fu l'unico generale capitolino ad ottenere il trionfo per il conflitto suddetto. Passò alla Storia anche per la famosa Lex Pompeia dell'89 a.C. con la quale concesse la cittadinanza latina agli abitanti della Gallia Transpadana. Narra Asconio Pediano nel commento a Cicerone (In Senatu contra L. Pisonem):

"Cneo Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magnò, fondò colonie al di là del Po. Lo fece non inviandovi nuovi coloni, ma conferendo la cittadinanza latina a coloro che già le popolavano, che rimasero dove già essi stavano; ciò affinché essi potessero ottenere gli stessi diritti delle altre colonie latine, cioè che i loro cittadini potevano raggiungere la cittadinanza romana ricoprendo una magistratura nella propria città."

Al termine del consolato, si rifiutò di riconsegnare i suoi veterani che assestò nel Picenum. Una mossa astuta che lo rese agli occhi del Senato, un uomo da temere e da rispettare allo stesso tempo. Fu lui infatti a marciare alla testa delle sue legioni verso l'Urbe in appoggio agli optimates contro la rivolta democratica capeggiata da Cinna, Mario e Sertorio. Accampatosi sotto le mura della città, gli mancò tuttavia la determinazione di passare alle vie di fatto. Strabone era uno spietato calcolatore, famoso per la crudeltà e l'antipatia che ispirava. Correva l'anno 87 a.C. quando in estate un fulmine lo colpì uccidendolo sul colpo. Si narra anche di una pestilenza che coinvolse il suo esercito o di una caduta in battaglia in seguito agli scontri con i mariani. Gli eventi correvano e un anno dopo, nell'86 a.C., ritroviamo Cinna console, dopo aver di fatto occupato militarmente Roma. Gaio Mario morì in quello stesso. Aveva ottenuto l'agognato settimo consolato alla veneranda età di settantuno anni. Il suo acerrimo nemico, Silla era in Grecia a combattere. Gneo Ottavio, console designato per l'anno 87 a.C., uomo di fiducia di Silla stesso, era caduto per mano delle feroci epurazioni mariane. Lungi dallo stabilizzarsi, la situazione politica nell'Urbe andò peggiorando negli anni a seguire. Nell'84 a.C. Cinna e l'altro console, Gneo Papirio Carbone si apprestarono ad attendere in armi il ritorno di Silla. Fermo ad Ancona con il suo esercito, Cinna venne trucidato dai legionari, stanchi di combattere una guerra fratricida. Al ritorno di Silla nell'83 a.C., Sertorio, il mariano di maggior talento militare della combriccola si rifugiò nella penisola iberica dando vita ad una sorta di regno indipendente. Pompeo, subentrato al padre nel comando delle famose tre legioni, da buon conservatore, li mise a disposizione dello stesso Silla. Non fece in tempo a partecipare alla Battaglia di Porta Collina (82 a.C.) che sancì la definitiva vittoria degli optimates sulla fazione mariana, segnando la fine della guerra civile. In questo scontro ritroviamo un baldanzoso Crasso al comando dell'ala destra dello schieramento sillano. Sbaragliò gli avversari con ardore, favorendo la vittoria finale. Pompeo si era comunque distinto sul fronte settentrionale con una serie di successi. Era cresciuto tra i veterani del padre e dimostrò subito di possedere un "presunto" ed innato talento nel comando. Era un giovane talmente coraggioso e ambizioso da meritare la fiducia incondizionata di Silla. Pompeo guidava in prima persona le cariche di cavalleria. Non si tirava mai indietro dinanzi al pericolo. Si narrava che avesse persino infilzato con un solo colpo di lancia un gigantesco celta, sfidato a singolar tenzone. Il dittatore ne rimase affascinato. Cominciarono i primi paragoni con Alessandro Magno. Ricordo che tutte le famiglie romane di condizione agiata provvedevano a far educare i figli da precettori ellenici i quali riportavano tra gli esempi di valore e virtù proprio il Macedone. Ogni nobile romano era cresciuto con il mito di Alessandro. Per Pompeo, Alessandro divenne, nel corso degli anni, un termine di paragone ossessivo e ingombrante, tanto da fargli decidere di assomigliargli anche fisicamente. Infatti se ne andava in giro con un'acconciatura ripresa in pieno da uno dei tanti busti del figlio di Filippo II.

Il salvatore della Repubblica

Al giovane arrivista non rimase che cavalcare l'onda del vincitore Silla. Questi gli propose di sposare una sua figliastra, Emilia, già in cinta di un altro uomo. Pompeo ripudiò la moglie Antistia per obbedire agli ordini del suo superiore. Il nuovo matrimonio terminò con la morte di Emilia, in seguito al parto. Il favore di Silla era comunque ottenuto. Pompeo venne mandato prima in Sicilia e poi in Africa sulle tracce dei pochi sventurati mariani rimasti in circolazione. Conseguì una serie di vittorie che lo illusero di essere un grande stratega, superiore persino a Scipione Africano. Pur evitando massacri indiscriminati, si macchiò di alcuni atti di brutalità che suscitarono eterno odio tra gli avversari e malcelato scontento tra gli alleati. Uno su tutti, l'uccisione di Carbone. Il tre volte console era rimasto solo a difendere la Sicilia. Si arrese a Pompeo per essere trascinato in catene davanti ad un tribunale presieduto dallo stesso. Fu giustiziato platealmente senza troppi complimenti. Al termine della campagna africana, Silla, valutando con crescente sospetto il comportamento del suo luogotenente, gli intimò di sciogliere le legioni. A questo punto avvenne una scena degna della migliore tragedia greca: Pompeo in lacrime, disperato dinanzi ai legionari riottosi al congedo forzato. Questi giurarono fedeltà al proprio comandante, acclamandolo Magnus. Pompeo avrebbe potuto marciare in armi contro Roma e prendersi il potere assoluto così come aveva fatto Silla anni prima. Non lo fece. Mandò a casa i legionari e si presentò al dittatore che nel frattempo aveva abbandonato la scena politica (79 a.C.). Pompeo voleva il trionfo, un immeritato trionfo dato che, secondo la legge romana, spettava solamente a consoli e pretori. Egli non deteneva nessuna delle due cariche. Con faccia tosta, ricordò a Silla che "erano più numerosi coloro che adoravano il sole al suo nascere che non quelli che lo adoravano al suo declinare". Ottenne il trionfo. Per vendetta, l'ex dittatore cercò di ostacolarne l'ascesa politica ma invano. Nel 78 a.C. Pompeo rientrò nell'Urbe, forte di un navigato sistema clientelare stabilito nel Picenum. Silla sarebbe morto da lì a poco in quel di Cuma. Tanto per fargli un dispetto, Pompeo diede il suo appoggio politico a Marco Emilio Lepido per le elezioni consolari dell'anno in corso. Questi era un aristocratico della Gens Emilia che aveva mal digerito il sistema di governo improntato da Silla, fatto di confische ed eliminazione fisica degli oppositori. Eletto console insieme al collega Quinto Lutazio Catulo (sillano convinto), cercò di promuovere un'amnistia per chi era sopravvissuto alle proscrizioni con tanto di restituzione delle proprietà confiscate. Un danno immane per chi, come Crasso, si era arricchito grazie ai beni degli epurati. Lepido fece causa comune con i rimasugli del partito mariano e arroccatesi in Etruria con le sue legioni, dichiarò guerra a Roma. Pompeo, da iniziale alleato di Lepido, passò dalla parte del Senato. Era dotato di una rapida capacità di giudizio e comprese subito come un uomo condannato da un Senatus Consultum Ultimum, non avesse la minima possibilità di sopravvivenza. Inoltre Lepido e il suo luogotenente, Marco Giunio Bruto (padre del futuro cesaricida), erano condottieri scadenti, non in grado di contrapporsi alla sua capacità bellica. Pompeo infatti si liberò con facilità di Bruto, eliminato al pari del povero Carbone. Lepido perse l'esercito dinanzi Roma per mano dell'altro console. Riparò in Sardegna e morì di crepacuore. Da quel momento, Pompeo si ritenne il salvatore della Repubblica, un ruolo che gli andava a genio, appagando in parte il suo smisurato ego.

In Spagna per la rivolta di Spartaco

Eroso dalla brama di ulteriori successi, Pompeo voleva un nuovo comando. Sul fronte orientale, contro Mitridate re del Ponto, operava Lucio Licinio Lucullo. Questi era considerato il generale capitolino più talentuoso. Era un aristocratico altezzoso di mezza età, dell'influente Gens Licinia. Pompeo lo detestava. In Spagna stazionava da anni il ribelle Sertorio. L'ex mariano, stratega dal talento immenso, aveva creato nella provincia una sorta di regno romano indipendente. Da tre anni teneva in scacco le legioni di Metello Pio. Il novello Alessandro brigò nelle stanze del potere per ottenere un mandato proconsolare che gli assegnasse il comando della guerra in Spagna. Lo ottenne, pari in grado di Metello. Dal 76 al 71 a.C. si combatté nella penisola iberica un feroce conflitto. Le armi romane furono logorate dalla  guerriglia messa in atto dal generale ribelle. Pompeo ne uscì con le ossa rotte. Sconfitto nei pressi di Saguntum e consumato dalle azioni "mordi e fuggi" del nemico, lamentò al Senato la mancanza di uomini e mezzi. Ricorse all'espediente meschino di ritirare fuori le imprese annibaliche, timore ancestrale di tutti i romani. Così come il Barcide, partito dalla Spagna, aveva messo a ferro e fuoco l'Italia, allo stesso modo Sertorio avrebbe potuto valicare i Pirenei e poi le Alpi per calare direttamente nella Pianura Padana. Il Senato gli concesse due legioni e infiniti rifornimenti. Sfruttando il talento del proconsole Metello nel contenere le azioni di un sempre più stanco Sertorio, Pompeo si dedicò a fiaccare la resistenza dei locali. Giunse l'anno 72 a.C. e una congiura levo di mezzo l'ex mariano. Il vile Perperna, subentrato a Sertorio, cadde nella trappola più stupida della storia militare, trascinando il suo esercito in bocca alle legioni di Pompeo. Fu un massacro. Il nostro se ne prese tutti gli onori, trionfo compreso.

In Italia nel frattempo nuovi e vecchi figuri si battevano per il potere tra i banchi della politica. Tra questi Crasso, il patrizio divenuto ricchissimo con l'usura, l'edilizia e l'acquisizione dei beni dei proscritti sillani. Egli ambiva al consolato e la rivolta servile dello schiavo Spartaco sarebbe stato il trampolino di lancio ideale. Dopo essersi dannato l'anima per stanare l'ex gladiatore, lo sconfisse sonoramente in Lucania, sbavando dietro un trionfo ormai imminente. Non aveva fatto i conti con Pompeo. Una manciata di sopravvissuti dell'armata di schiavi (circa 5000 uomini) stava cercando di transitare per le Alpi col desiderio di scemare chi in Germania, chi in Tracia. Il Senato romano, preso da non so quale smanioso timore, aveva mandato messaggi allarmistici a Pompeo che a capo delle sue legioni stava rientrando dalla Spagna. Questi, peccando di slealtà "politica" nei confronti di Crasso, inseguì gli ex rivoltosi e li sterminò con facilità. I romani, di entusiasmo facile, acclamarono una volta per tutte Pompeo come il nuovo Alessandro Magno, disdegnando Crasso, vero autore della vittoria. Il ricco patrizio ingoiò il rospo a fatica. Era un generale severo e puntiglioso ma dallo scarso acume tattico. Non si prese la briga di mettersi contro Pompeo a viso aperto. Anzi ritenne opportuno allearsi con lui in vista del consolato per l'anno 70 a.C. A Roma Pompeo entrò in trionfo. A Crasso spettò il mirto dell'ovatio e la soddisfazione di aver crocifisso 6000 schiavi sull'Appia. La gelosia nei confronti del giovane profittatore non sfumò mai e determinò in un certo qual modo la disfatta di Carre nella quale lo stesso Crasso morì nel 53 a.C.

Il capolavoro contro i pirati

Il canto del cigno di Pompeo fu nella strategia attuata contro i pirati. Questi erano diventati una vera e propria calamità. Organizzati in squadre, dominavano in lungo e in largo il Mediterraneo contando su basi e magazzini di rifornimento che andavano dalla Cilicia alle Colonne d'Ercole. Si erano permessi persino di affondare una flotta da guerra romana al largo di Ostia. Nessuno sembrava in grado di opporsi alle loro razzie. Pompeo decise che quella sarebbe stata la sua nuova guerra. Grazie alla proposta del tribuno della plebe Gabinio e all'approvazione del Senato gli furono assegnati 15 legati, 120.000 uomini e 5000 cavalieri con un totale di 500 imbarcazioni. Quello che più sorprende fu che Pompeo venne investito per tre anni di un imperium (autorità) in essere su tutto il Mediterraneo, superiore a quella dei governatori provinciali e a qualunque altra carica dello Stato. In pratica, egli poteva prendersi Roma e governarla come meglio avrebbe potuto. Per la seconda volta non lo fece. Il Magnus in soli quaranta giorni estirpò la minaccia piratesca. Divise il Mediterraneo in quindici distretti, ognuno assegnato a un legato con una propria flotta. In tal modo impedì ai corsari ogni via di fuga. Poi passò ad attaccare le basi sulla terraferma. Propose ai pirati di passare dalla parte romana, promettendo terre e ricompense. Molti accettarono. Infine nella grande battaglia presso Coracesio in Cilicia (67 a.C.) ridusse al silenzio gli irriducibili. Pompeo tornò a Roma carico di fama e di ricchezze.  Da una iscrizione in greco, trovata nei pressi di Ilio in Anatolia, posta in onore di Pompeo:

"Il popolo e le giovani reclute hanno innalzato questa statua a Cneo Pompeo Magno, figlio di Cneo, generale in capo per la terza volta, patrono e benefattore della loro città, per la sua devozione nei confronti della dea che è qui ... e la sua benevolenza verso il popolo, lui che ha liberato gli uomini dalle guerre contro i barbari e dai pericoli suscitati dai pirati e ha ristabilito la pace e la sicurezza sulla terra e sul mare." (Année Epigraphique, 1990, n° 940)

Come primo atto di rientro in patria, restituì l'imperium al Senato. Il suo occhio si era allungato verso Oriente dove il detestato Lucullo continuava ad accumulare successi su successi e denari su denari nella guerra contro l'irriducibile Mitridate VI, re del Ponto. Pompeo agitò in tal modo le torbide acque della politica romana da ottenere ben presto i favori degli equites, alimentando di contro le opposizioni a Lucullo. Fu così che in breve sulla sua testa cadde un mandato proconsolare per la campagna militare d'Oriente in sostituzione dello stesso Lucullo che definì il Magnus come "un uccello pigro abituato a gettarsi sui cadaveri di uomini uccisi da altri e a lacerare i resti lasciati dalle guerre" (Plutarco, "Vita di Pompeo" 31). Dal 66 al 62 a.C. combattendo contro un esercito logoro da anni di guerre, egli riuscì ad aver ragione del re ribelle, annettendo a Roma quanti più territori possibili e massacrando, già che c'era, la caucasica popolazione degli Iberi. In questa occasione il grande generale, emulò Annibale a Canne, attirando gli iberi al centro dello schieramento, facendo arretrate lo stesso e circondando gli ignari guerrieri con le cavallerie e le truppe fresche di retrovia. E mentre Pompeo era l'eroe del momento superando a sua detta in strategia anche Annibale, Lucullo, decaduto politicamente, si dava al lusso più sfrenato, ai banchetti appunto "luculliani".

L'astro nascente di Cesare e il tramonto di Pompeo

Saltiamo a piedi pari tutte le implicazioni del primo triumvirato. Basti pensare che i tre uomini più potenti dell'Urbe si misero segretamente d'accordo per governare Roma nel 60 a.C., in barba alle istituzioni. Il magnate Crasso, il grande condottiero Pompeo e l'emergente Cesare, console e poi proconsole nelle Gallie avevano deciso una sorta di tregua armata a tutela dei tanti interessi personali. Meglio fare la pace che far la guerra e il mondo romano venne spartito in tre parti più o meno uguali: a Cesare le Gallie, a Pompeo la Spagna, a Crasso la Siria. Vi appunto un frammento dell'Epitome di Storia Romana di Floro (II, 13, 1 ; 8-17).

"...l'eccessiva potenza di Pompeo suscitò, come suole accadere, la gelosia nel cuore dei tranquilli cittadini.[...] Ciò suscitò in lui un grande risentimento e lo spinse a cercare appoggi per tutelare la propria dignità. Per caso allora Crasso brillava per nascita, ricchezze e prestigio. [...] Caio Cesare emergeva per l'eloquenza e il coraggio ed ecco già anche per il consolato. Pompeo tuttavia svettava sull'uno e sull'altro."

Nel 49 a.C. il Senato avrebbe voluto far tornare Cesare dal fronte settentrionale, in vesti civili, spogliato dunque di ogni potere e del comando delle sue legioni. Il fine, manco a dirlo, era quello di levarlo di mezzo. Cesare invece decise di passare il Rubicone (confine inviolabile della penisola italica) e calare sull'Urbe con tutti i suoi veterani. Il Senato ricorse a Pompeo. l'Alessandro Magno romano avrebbe di sicuro sconfitto l'uomo della Suburra. In questo frangente emersero tutte le lacune del sopravvalutato generale. Bisogna dire che Pompeo giunse al conflitto civile indeciso sulla migliore strategia da attuare. Troppo esaltato di sé, sembrò non comprendere la forza e l'influenza di Cesare. Egli, quasi con sdegno, abbandonò l'Italia per riparare in Oriente, nelle terre che considerava ormai una sorta di feudo personale dal quale ricavare uomini e mezzi. A Durazzo, un incerto Pompeo, emule stavolta di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, si lasciò sfuggire l'occasione per annientare il nemico. Un errore che pagò con gli interessi. Nella battaglia campale di Farsalo nel 48 a.C. andò incontro ad una disfatta che ha dell'incredibile: i suoi effettivi, circa il doppio rispetto a quelli di Cesare, furono letteralmente sbaragliati dai veterani delle Gallie. Fu la fine della stella di Pompeo Magno. Sallustio lo definì un uomo mediocre in tutto tranne che nell'abilità di accaparrarsi il potere, una figura lontana anni luce dunque da quell'Alessandro che giunse ai confini del mondo conosciuto. Di stesso parere fu Tacito e persino Cicerone, che da intimo consigliere del Magnus, tentò di farlo ragionare sulla possibilità di ricucire lo strappo con Cesare. Invano, dato che Pompeo si mostrò di una intransigenza che spesso sembrava scadere nel fanatismo. A tal riguardo, leggiamo parte di quanto scrisse l'edile Marco Celio Rufo a Cicerone nel 50 a.C. (Cicerone, Lettere agli amici, VIII, 14, 2-3)

"... la questione principale sulla quale si scontreranno coloro che detengono il potere è che Cneo Pompeo ha deciso di non consentire che Caio Giulio Cesare venga eletto console se non abbandonando l'esercito e la provincia. Cesare d'altronde è persuaso che non vi possa essere salvezza per lui se si separa dall'esercito. Tuttavia ha proposto il seguente compromesso: che entrambi consegnino gli eserciti. Così quegli amori e quella tanto detestata alleanza finiranno per degenerare non in un astio segreto, ma in una guerra aperta..."

Il grande generale morì in Egitto, a Pelesium, il giorno del suo cinquantottesimo compleanno. Era il 29 settembre del 48 a.C. e Pompeo a bordo di una imbarcazione stava attendendo al largo, il momento di essere portato al cospetto del giovane faraone Tolomeo. I consiglieri del re bambino avevano deciso diversamente. Due  veterani romani lo adescarono, facendolo trasbordare su una barca più piccola con l'intento di portarlo a riva dove ad attenderlo ci sarebbe stata, a detta loro, una delegazione del sovrano egiziano. Nel breve tragitto, fu infilzato alle spalle più volte. Cadde e la sua testa venne mozzata. Il corpo mutilato, abbandonato sulla spiaggia, venne preso in carico dai suoi schiavi per un modesto funerale. Così terminava l'epopea di Pompeo Magno. Conclude Cassio Dione Cocceiano nella sua Storia Romana (XXXVII, 20):

"Dirò ora ciò che dobbiamo ammirare maggiormente in Pompeo, una cosa la cui gloria non appartiene che a lui. Onnipotente per terra e per mare, padrone di incalcolabili ricchezze....sicuro dell'amicizia di molti re e della lealtà di quasi tutte le nazioni che aveva organizzato sotto la propria autorità...avrebbe potuto soggiogare l'Italia e concentrare nelle sue mani tutti i poteri di Roma. Ma non volle farlo..."

Bibliografia e immagini
- "Storia romana", Giovanni Geraci e Arnaldo Marcone. Le Monnier Università.
- "Fonti per la Storia romana", Giovanni Geraci e Arnaldo Marcone. Le Monnier Università.
- "I grandi generali di Roma Antica", Andrea Frediani, Newton Compton Editore.
- "Il libro nero di Roma Antica", Giuseppe Antonelli. Newton Compton Editore.
- "Ritratti d'autore. Vite a confronto oltre la Storia e il mito", Paola Scollo,  GB Editoria.
- Immagini e fotografie di pubblico dominio, ove non diversamente specificato. Fonte Wikipedia.

Data di pubblicazione articolo: 24 maggio 2020
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