Filippo V di Macedonia - Il Sapere Storico. De Historia commentarii

Il Sapere Storico
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Articolo a cura di Andrea Contorni R.

La fine di un grande impero

La morte di Alessandro Magno avvenuta in quel di Babilonia nel 323 a.C. aveva comportato la repentina fine dell'impero da lui conquistato e amministrato con tanta fatica.  I generali "Successori" del Macedone ("diadochi") se ne contesero i territori a suon di guerre, ben sei. L'assetto politico che ne scaturì vide la nascita di alcune grandi dinastie, tra cui si distinsero tra le altre i Tolomei in Egitto e i Seleucidi in Oriente. Queste realtà, a cui si unì il regno di Macedonia degli Antigonidi, rappresentarono la culla dell'ellenismo. I valori della civiltà greca si diffusero in tutto il mondo conosciuto, ideale modello per tutte le altre culture nell’arte, nella filosofia, nelle scienze e nella religione. Per quanto estesi territorialmente, nessuna di queste monarchie ellenistiche possedeva l’organizzazione politico-militare dell’impero fondato da Alessandro.

Possiamo immaginarle con la struttura portante simile a quella di un grande e meraviglioso castello di carte. Il vento romano, che iniziò a tirare sempre più violento dal III secolo a.C. in poi le spazzò via con una facilità disarmante. L’impero seleucida cadde sbriciolato sotto i colpi dei parti a oriente e dei romani a occidente. La sua ultima cellula resistette in Siria fino al I secolo a.C. quando Gneo Pompeo Magno ne decretò l’epilogo. L'Egitto tolemaico fu di poco più fortunato ma sempre nel I secolo a.C., iniziò a perdere per gradi la sua indipendenza. Prima con Cesare, poi con Marco Antonio. La battaglia navale di Azio (31 a.C.) vide la disfatta di Marco Antonio e di Cleopatra, (l’ultima regina dei Tolomei) e il trionfo della flotta di Ottaviano Augusto, condotta alla vittoria dal talento militare di Marco Vipsanio Agrippa. L’Egitto fu ridotto a provincia romana, tenuta in grande considerazione per via della copiosa produzione di grano, necessaria a sfamare le bocche dell’Urbe.

La Macedonia invece ebbe una storia ancor più romanzata. Seppur limitata e impoverita, essa rappresentava, quantomeno simbolicamente, il nucleo di quella che fu la potenza forgiata da Filippo II e mossa attraverso il mondo da Alessandro. Una potenza che ancora brillava nell'esercito schierato nella potente e rigorosa falange. Questa formazione era in grado di presentare al nemico un muro invalicabile di lunghe sarisse, (6, 7 metri). La sua avanzata sui campi di battaglia era inarrestabile a patto di mantenere una ferrea coesione tra gli uomini. La difficoltà di manovra e l'eccessiva lentezza nel cambio di direzione, potevano comportare una pericolosa disorganizzazione dei reparti, rendendo lo schieramento vulnerabile.
Gli esperti militari dell'epoca si erano più volte interrogati circa l'esito di uno scontro tra la leggendaria falange e il manipolo romano, (Scipione l'Africano introdusse una sorta di coorte in forma embrionale, quale evoluzione del manipolo stesso). Filippo V di Macedonia diede modo di verificare in pratica tale confronto. Ma chi era costui?

Scenario geopolitico dell'intero bacino del Mediterraneo nel 218 a.C.
Scenario geopolitico dell'intero bacino del Mediterraneo alla vigilia della seconda guerra punica. Licenza Creative Commons.

Il nuovo Alessandro

Moneta con raffigurazione di Filippo V di MacedoniaNato nel 237 a.C. Filippo V era figlio di Demetrio II Etolico, re di Macedonia. Nel 229 a.C. morto il padre, il regno passò ad Antigono Dosone, nominato reggente. Passato a miglior vita pure questo, il diciassettenne Filippo si vide recapitare il trono su un vassoio d'argento.  Il ragazzo amava cavalcare ed era piuttosto abile nel combattimento individuale. In sella al suo stallone, vestito e armato di tutto punto e con l'elmo piumato in testa, sembrava davvero una sorta di clone di Alessandro Magno, in grado di infervorare le folle quasi al pari del suo "antenato".  Persino nel carattere risoluto e testardo i più ottimisti vedevano aspetti in comune con "Il Grande". Ma quale Macedonia si trovò a governare il giovane re? Una nazione chiusa tra un nord popolato da tribù bellicose, dedite a saccheggi e devastazioni e un sud caratterizzato da una sfilza di infidi alleati pronti a calare un coltello tra le scapole macedoni alla prima occasione. Le poleis greche bramavano la loro indipendenza, mal sopportando i tentativi di egemonia perpetrati da un re "barbaro" che si illudeva di essere un greco egli stesso. I primi a farsi sotto furono gli Etoli, una forte e bizzosa comunità stanziata nella regione a sud della Tessaglia. Questi, al comando di una confederazione di città-stato, (Lega Etolica) attaccarono gli Achei, alleati storici dei Macedoni, nel Peloponneso. Filippo che era alle prese con la riorganizzazione interna del regno, agì con lentezza e circospezione. Fu una leggerezza temporanea. Nel 220 a.C. invase il Peloponneso. Ribadì l’alleanza con gli Achei e ne strinse di nuove con Focesi, Beoti, Epiroti e in seguito con gli Illiri. La guerra continuò tra alti e bassi. Nella primavera del 219 a.C. un attacco dei Dardani costrinse Filippo a rientrare in Macedonia. Nell’inverno dello stesso anno, quando il periodo delle campagne militari era, secondo le consuetudini, terminato, costrinse il suo esercito a una nuova estenuante marcia verso sud. Piombò come un falco su Corinto, annientando l’armata etolica che svernava in quel luogo. Nel 218 a.C., infine, affidandosi a unità scelte formate da pochi ma addestrati reparti, eseguì un avventuroso sbarco nel Golfo d’Ambracia. Marciò diretto su Termo, la capitale degli Etoli, conquistandola dopo averla messa a ferro e fuoco. Il re aveva dimostrato coraggio e fermezza. Il suo ascendente crebbe a dismisura. La sconfitta in campo degli Spartani segnò la fine della guerra. Correva l’anno 217 a.C.

Filippo non si fidava più degli uomini di casa sua. Iniziò a dare retta ai consigli di Demetrio di Faro, un faccendiere di Pharos, che era riuscito a farsi nominare re dell’Illiria dai Romani, dopo aver tradito il suo popolo. Non contento di sottostare al "padrone" capitolino, si diede ad atti di pirateria nell’Adriatico. Roma lo punì spazzando il suo piccolo regno nel 219 a.C. Demetrio riparò presso Filippo V. Arato di Sicione era l’altro fedele consigliere di Filippo V. Personaggio di grande spessore politico e militare, era stato più volte strategós della lega achea. Non osteggiava Roma. Anzi cercò di convincere il sovrano a non inimicarsi la crescente potenza italica. Alla lunga la presenza di Arato a corte divenne insopportabile per Filippo. Nel 213 a.C. il vecchio generale morì avvelenato. Demetrio nel frattempo, per spirito di vendetta verso Roma e intimorito dall'ombra capitolina che si allungava sempre più sulle coste illiriche, era riuscito a convincere Filippo dell'ottima opportunità offerta da un'alleanza militare con Annibale il Cartaginese. C'era la concreta possibilità di annientare una volta per tutte la tracotante potenza romana, ripetendo le imprese di Pirro. Demetrio, riportando i successi del Barcide in terra italica e le difficoltà dei capitolini, sosteneva la fattibilità di uno sbarco di truppe macedoni nella penisola. Presa tra due fuochi, Roma sarebbe capitolata.

La situazione politica in Grecia alla vigilia della Seconda Guerra Macedonica nel 200 a.C.  Busto di Annibale (Museo Archeologico Nazionale di Napoli
A sinistra la situazione politica in Grecia alla vigilia della Seconda Guerra Macedonica nel 200 a.C. Licenza Creative Commmons - A destra busto di Annibale Barca.

Alleanza con Annibale e primi scontri con Roma

Filippo si fece abbindolare dal sogno di creare un impero simile a quello che fu di Alessandro Magno. Tra il 217 e il 216 a.C. fece allestire frettolosamente una flotta di oltre cento navi veloci e leggere, i caratteristici "lembi", galee illiriche con un unico banco di remi. Prima di tutto doveva impadronirsi dei porti romani in Illiria per avere delle valide basi d’appoggio dalle quali far partire l’invasione dell’Italia. Salpò in direzione di Apollonia. Appena superata Cefalonia, in lontananza furono avvistati natanti romani. Filippo ebbe la presunzione di credere che l'intera flotta dell’Urbe fosse stata mandata a intercettarlo. Riteneva che i romani lo temessero e fossero terrorizzati dalla sua discesa in campo. Considerò che le sue imbarcazioni non avrebbero mai potuto concorrere con le quinqueremi romane. Ordinò una precipitosa ritirata. In realtà la suddetta flotta romana consisteva in una decina di imbarcazioni con compiti di ricognizione. Nessuno nei porti romani aveva infatti dato peso alle voci che narravano di una grande flotta macedone che veleggiava verso l'Illiria. Nella storia romana, le guerre macedoniche hanno sempre contato quanto il due di picche quando comanda bastoni, surclassate a più riprese da ben altri conflitti. Eppure tale diatriba durò dal 214 al 148 a.C., un'eternità. La prima guerra macedonica scoppiò nel 215 a.C. un anno dopo la terribile disfatta di Canne. Annibale vagava indisturbato per l'Italia. Il comando delle legioni era tornato nelle mani del vecchio Quinto Fabio Massimo detto il "Temporeggiatore". Roma non poteva permettersi di perdere altri uomini, figurarsi di aprire un nuovo fronte di guerra. Dal canto suo Filippo V, dopo la vergognosa ritirata ordinata alla sua flotta un anno prima, non si era perso d'animo. In gran segreto i suoi ambasciatori erano sbarcati in Italia e avevano raggiunto Annibale nei pressi di Canne. Gli avevano offerto l’alleanza del regno macedone. Filippo si impegnava per iscritto a raggiungere le coste italiche, attaccando le forze romane sia per mare che per terra. Tutti i territori conquistati e il bottino sarebbero stati di Annibale. Sconfitta Roma, il Barcide avrebbe raggiunto Filippo in Macedonia per muovere guerra a tutti gli stati greci che ovviamente sarebbero entrati nell’ottica macedone. Sulla via del ritorno i messi furono catturati dai romani. Il Senato accolse con sgomento l'entrata in scena di Filippo V. Per non perdere la faccia, Roma dichiarò guerra alla Macedonia. La flotta che pattugliava l’Adriatico fu rinforzata. Filippo V non perse tempo. Nel 214 a.C. diresse le sue navi verso Apollonia, in Illiria. Sbarcò e pose d'assedio la città dopo essersi preso anche Orico. La squadra navale romana era comandata da Marco Valerio Levino, subentrato da poco a Valerio Flacco. Levino era un uomo tutto d'un pezzo, sceso in campo con il grado di propretore in seguito alla disfatta di Canne. Egli aveva dimostrato fermezza e coraggio nell'impedire agli Irpini di ribellarsi a Roma e passare nel campo cartaginese. Ora lo attendeva una nuova sfida, ovvero bloccare l'invasione macedone. Come un fulmine piombò su Orico liberandola, poi concordando un piano con il suo secondo, Quinto Nevio Crista, ruppe l'assedio di Apollonia, sorprendendo i macedoni nel proprio campo grazie a un inaspettato attacco notturno. Fu un massacro, dal quale si salvò per miracolo il re Filippo, riparando in Macedonia. Levino fu di sicuro uno dei migliori generali e governatori romani di tutti i tempi, insignito del consolato nel 211 a.C. pur senza aver avanzato la propria candidatura. A causa di alcuni contrasti con il Senato, Levino non venne mai onorato di quel trionfo che avrebbe invece meritato.

Tornando a Filippo V. Nel 213 a.C. riprese le operazioni di invasione dell'Illiria ma stavolta via terra. Roma dal canto suo, ancora impegnata nel conflitto punico, spedì al fronte macedone il solo Sulpicio Galba con una flotta di media entità. Il capolavoro del Senato fu quello di convincere gli Etoli, ancora a capo della lega di città-stato greche, a prendersi in carico le operazioni terrestri contro Filippo. Agli Etoli si unirono presto Pergamo, Elide, Messenia e Sparta, tutti nemici giurati di Filippo V. Fino al 206 a.C. in una miriade di scaramucce e scontri minori, greci e macedoni si scannarono per il divertimento dei capitolini che limitarono il loro intervento a una presenza navale appena accennata. Alla fine dei giochi, la pace di Fenice fu firmata per disperazione e sfinimento generale. Roma aveva ottenuto lo scopo di tenere Filippo lontano da Annibale, evitando uno sbarco macedone in Italia. Il nuovo Alessandro, pur riportando diverse vittorie, uscì dal conflitto ancora più provato e impoverito di uomini e mezzi.

Un castigamatti senza freni

Busto di Antioco III di SiriaScontroso, irascibile, ossessionato da ipotetici sogni di grandezza, tetro e malfidato, Filippo V, intorno all’anno 204 a.C. si imbarcò in una nuova campagna di guerra. In Egitto era da poco asceso al trono un Tolomeo di anni sei. Filippo mirava alla conquista dell’isola di Rodi e a espandersi proprio nella terra dei faraoni. Per farlo si alleò con Antioco III di Siria, regnante dell’impero seleucida. I due compari si gettarono a capofitto nella conquista dei possedimenti tolemaici. Rodi e Pergamo, preoccupati dell'ingerenza dei due nella penisola anatolica, mandarono ambasciatori a Roma. Lamentando lo scarso impegno capitolino nel conflitto di qualche anno prima, convinsero i senatori a intervenire contro i due riottosi sovrani. Nel frattempo una flotta formata dai Rodii e dai loro alleati era riuscita nell’eroica impresa di sbaragliare quella macedone, numericamente superiore, a Chio. Filippo V, persa gran parte della marina da guerra, perseverò nelle operazioni di terra in Caria. Gli Ateniesi, impegnandosi in uno scontro con una flottiglia piratesca nello Ionio, offrirono al re macedone il pretesto per rimettere piede in Grecia. I pirati infatti risultarono suoi alleati. Filippo organizzò una spedizione punitiva, giungendo fin sotto le mura di Atene. Si misero di mezzo gli ambasciatori romani che, con le parole, riuscirono a stopparne l’offensiva. Ma la tregua era destinata a durare poco. Filippo non era disposto a rinunciare alla sua brama di conquista. Continuò a guerreggiare con i Tolomei e con gli Ateniesi. Nel 202 a.C. le legioni di Scipione l'Africano avevano chiuso la pratica cartaginese, annientando Annibale a Zama. Il popolo romano era moralmente a pezzi e la prospettiva di una nuova guerra fu accolta nel peggior modo possibile. Il console incaricato per l'anno 200 a.C., quel Sulpicio Galba che nulla aveva fatto nel primo conflitto macedonico, si dimostrò un oratore molto convincente quando parlò dinanzi ai comizi centuriati. Tirando fuori in un ideale minestrone, una sfilza di eventi e nomi, dai Mamertini a Pirro, passando per Sagunto, Annibale e i Sanniti, riuscì a convincere tutti che Filippo era talmente potente che ben presto si sarebbe presentato in Italia, conquistando Roma dopo avere esteso la sua influenza sul Peloponneso! Nulla di più falso. Persino in Grecia, la voglia di far guerra a Filippo non sussisteva. La sola Atene che, citando Livio, dell'antico splendore conservava solo l'arroganza, aveva desiderio di menare le mani. A Roma bastò. D'altro canto bisognava ribadire la potenza dell'Urbe. Togliere di mezzo quel sovrano impertinente avrebbe alla lunga comportato dei vantaggi. Mentre venivano mandati ambasciatori a Filippo con proposte di resa, altri convincevano Antioco a farsi gli affari suoi; Roma avrebbe chiuso un occhio sull'espansione seleucida nei territori tolemaici. Sulpicio Galba condusse una guerra senza infamia e senza lode. Conquistò alcune città e sconfisse le truppe macedoni in diverse scaramucce senza mai giungere a quello scontro campale che avrebbe chiuso la pratica. Ottenne però la discesa in campo a suo favore dei soliti Etoli e di Attalo di Pergamo. La Macedonia si trasformò in una barca dalle mille falle. Filippo fino al 198 a.C. cercò di tappare i buchi, correndo a destra e a manca. Il suo regno sembrava davvero prossimo a sfaldarsi. La svolta nel conflitto avvenne però con l'entrata in scena di Tito Quinzio Flaminino, subentrato all'imbelle Publio Vilio che a sua volta aveva assunto il comando delle legioni al posto di Galba a fine mandato consolare.

Un generale di talento sulla falsariga di Scipione

Moneta con raffigurazione di FlamininoAppartenente alla gens Quinctia, Flaminino fu console appena trentenne, dopo aver ricoperto con successo tutto il cursus honorum. Egli era il rappresentante della nuova generazione dei condottieri romani, cresciuta nell’ombra di Scipione l'Africano. Non nascondeva uno spiccato filo-ellenismo. Coltivava un’ammirazione incondizionata per la cultura greca che considerava necessaria per il futuro di Roma stessa. Uomo capace, idealista e dalla fluente parlantina decise di ergersi a liberatore della Grecia dall'oppressione macedone. Le sue prime mosse in campo ripresero lo stile dei suoi predecessori: scaramucce e nulla di fatto.  Prese tempo in attesa del mandato proconsolare, facendosi un paio di chiacchierate con Filippo V, avanzando proposte di pace assurde da accettare. Ottenuta la nuova carica, prese a racimolare alleati. La sua forza complessiva ammontò a oltre 30.000 uomini tra legionari, soldati della Lega Etolica e mercenari. Aveva in dotazione persino una squadra di elefanti, fatti venire dalla Numidia. Di contro il re macedone si presentò ai nastri con 25.000 mercenari di cui 16.000 inquadrati nella leggendaria falange. Nel 197 a.C. Flaminino avanzò fino alle Termopili. A Fere, la cavalleria romana sgominò quella macedone. Infine in Tessaglia, nei pressi di Cinocefale, una zona collinare, i due enormi eserciti si scontrarono. Qui avvenne il tanto agognato confronto campale tra il manipolo romano e la falange macedone. Dopo i consueti battibecchi tra fanterie leggere, Filippo mosse i suoi uomini d'elite, inquadrati in due distinte falangi, una a destra e una a sinistra. I romani arretrarono andando a finire su un terreno fortemente accidentato. Qui le falangi persero coesione, in quanto il suolo non permetteva il perfetto allineamento dei fanti armati di sarissa. Flaminino mosse all'attacco della falange di sinistra. Gli diresse contro gli elefanti e i legionari. Nel frattempo gli schermagliatori continuavano nel loro compito di disturbo. I falangiti furono costretti ad abbandonare le sarisse in terra. Cercarono di difendersi con la spada. Persa la compattezza, la falange "mancina" si scompaginò provocando la rotta dei soldati. La falange di destra invece stava avanzando con successo tra le fila romane, ma si ritrovò a contrastare un attacco sul proprio fianco, portato da quegli stessi legionari che avevano appena messo in fuga l'ala sinistra di Filippo V. I fanti si arresero alzando le picche al cielo, ma nessun romano interpretò quel gesto come una resa. Fu un massacro. Il re macedone fuggì ancora una volta. La Grecia fu dichiarata "libera" nel 194 a.C.; il controllo di Roma si estese sull'Ellade. Flaminino fu equiparato a un semidio e trovò posto nell'Olimpo Ellenico. Il generale concesse a Filippo una resa con tutti gli onori, conservandogli persino il regno in cambio di un'indennità e del secondogenito Demetrio.

Filippo alleato dell’Urbe

Ormai nell'orbita romana, Filippo si adattò al nuovo ruolo aiutando i capitolini nel consolidamento del loro potere in Grecia, fornendo uomini, mezzi e basi logistiche. Quando i romani furono impegnati nella guerra contro Antioco III e la lega etolica, Filippo fu talmente utile alla causa capitolina, da meritarsi il ritorno in patria del figlio Demetrio. Purtroppo egli mai accettò la perdita della Tessaglia che considerava un suo territorio di diritto. L’indole del re era tendenzialmente guerrafondaia e non esisteva conflitto nella penisola ellenica al quale non volesse partecipare. Inoltre nel carattere era ulteriormente peggiorato, divenendo un anziano infido, incattivito e sospettoso. L'odio per i greci, a esclusione degli storici alleati Achei, era cresciuto a dismisura. Circondato da consiglieri incapaci, egli ricominciò a esercitare pressioni sulle città tessale. Eumene II, re di Pergamo ne informò il Senato. A Filippo fu intimato di ritornare entro i confini stabiliti dal trattato con Roma. Nel frattempo il figlio Demetrio, sposato in toto alla causa romana, cercava di far da paciere tra gli indispettiti quiriti e il padre. La situazione precipitò allorquando il primogenito di Filippo, Perseo, se ne uscì fuori con una lettera di Flaminino indirizzata al fratello, nel quale il generale romano prometteva il trono di Macedonia a Demetrio. La missiva era un falso anche se era davvero intenzione del Senato assegnare il trono al secondogenito del re rispetto a Perseo al quale sarebbe spettato di diritto. Sta di fatto che Filippo V giustiziò il proprio figlio per poi diseredare l'altro quando scoprì l'imbroglio. Siamo nel 179 a.C. e a quasi sessant'anni, l'anziano re finì all'altro mondo durante una campagna militare nel nord. Forse di malattia, forse di crepacuore.

La fine del regno di Macedonia

Perseo si prese a forza il trono, eliminando il cugino Antigono, designato erede dal morente Filippo. Nelle due successive battaglie di Pidna (168 e 148 a.C.), la falange sfidò di nuovo le legioni. Il risultato finale fu che la Macedonia divenne una provincia romana. Perseo sfilò in catene a Roma. Le guerre macedoniche segnarono la fine di un'epoca in campo tattico-strategico. La falange era superata per sempre. Non rappresentava più quell'invincibile schieramento che aveva permesso a Filippo II prima, ad Alessandro Magno poi di spadroneggiare in lungo e in largo. Dinanzi alla maggiore mobilità e flessibilità del manipolo romano, la falange dimostrava limiti strutturali evidenti. A Cinocefale, la prima falange perse la coesione per via del terreno accidentato. Bastava infatti che un singolo falangita inciampasse per mettere in crisi tutta la schiera. Questi uomini, (pezhetairoi, ossia "Compagni a piedi"), costretti ad abbandonare le fedeli picche, risultarono del tutto inappropriati al combattimento corpo a corpo contro i più esperti legionari. Il gladio, corta spada a doppio taglio, in dotazione ai fanti romani fece strage di arti e corpi. Ricordo a tal proposito che il falangita macedone poteva difendersi con uno scudo tondo di media grandezza, legato all'avambraccio sinistro. La seconda falange di Cinocefale, si ritrovò invece sotto attacco sul fianco e alle spalle. In questo caso, la scarsa capacità di manovra dello schieramento non permise allo stessa di girarsi per fronteggiare un attacco non frontale. Gli uomini alzarono le picche per arrendersi, venendo massacrati. Un'ultima nota risiede nel fatto che Flaminino conservò il trono di Filippo V solo ed unicamente perché a Roma faceva comodo avere uno stato cliente che potesse autogestirsi per far da cuscinetto tra le violente tribù traciche e i sempre bizzosi greci. Purtroppo il monarca ellenico non poteva starsene con le mani in mano, chiuso tra i propri confini. Filippo era un condottiero, un conquistatore, un uomo abituato alla guerra. Se nella prima battaglia di Pidna, avesse lui stesso comandato le ultime falangi nell'impari lotta contro le legioni, forse la Storia sarebbe stata diversa e adesso si sarebbe potuto scrivere del trionfo dell'ultimo grande erede di Alessandro il Macedone.

Bibliografia e immagini
- "I Grandi Nemici di Roma Antica", Philip Matyszak. Newton & Compton Editori.
- "The Republican Roman Army 280-44 BC", Nicolas Sekunda e Terence Wise. Osprey Publishing.
- "Le Grandi Battaglie tra Greci e Romani. Falange contro Legione", Andrea Frediani. Newton & Compton Editori.
- "Storia Romana", G. Geraci e A. Marcone. Le Monnier Università.
- Immagini e fotografie di pubblico dominio, ove non diversamente specificato. Fonte Wikipedia.

Data di pubblicazione articolo: febbraio 2019
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