Publio Elvio Pertinace, imperatore romano - Il Sapere Storico. De Historia commentarii

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Publio Elvio Pertinace, l'imperatore romano che regnò per 3 mesi...

Per Machiavelli, Pertinace era un uomo per bene, uno che amava la giustizia e la pace e che proprio per conseguire questi ideali in un'epoca corrotta e bellicosa, trovò la morte...
Articolo a cura di Andrea Contorni
Il Sapere Storico - Publio Elvio Pertinace imperatore romano
«...Solo una cosa lo rese infelice, il fatto che, dopo aver dato l'educazione migliore possibile al figlio, questi deluse le sue aspettative. Questa materia deve essere il nostro prossimo argomento, dato che da quel periodo dei Romani deriva oggi la nostra storia, decaduta da un regno d'oro a uno di ferro e ruggine.»

Questo è Cassio Dione nella sua Historia Romana, un autore vissuto proprio negli anni in cui si svolgono i fatti che vado a raccontare. Lui fu senatore sotto Commodo e fu testimone diretto anche della parabola esistenziale di Publio Elvio Pertinace, imperatore nel 193, dal 1° gennaio al 28 marzo. Se una qualunque cosa funziona, bisognerebbe battersi per far sì che continui a funzionare, soprattutto poi nel caso di una forma di governo vincente in grado di assicurare pace e prosperità o quanto meno capace di evitare congiure e nefandezze varie. Fu Nerva, vecchio e malato, in soli due anni di regno a comprendere quanto fosse importante lasciare l'impero al migliore, a chi per caratura morale, carisma e capacità, fosse realmente in grado di governare con lealtà e senso di giustizia nell'interesse della collettività. La sua scelta, non a caso, cadde su Marco Ulpio Traiano, colui che alla Storia è passato come Optimus Princeps. Traiano adottò il pacifico e talentuoso Adriano. Questi lasciò la porpora al pragmatico Antonino Pio. Infine fu la volta di Marco Aurelio. E con l'imperatore filosofo terminò nel peggiore dei modi il principato adottivo. Infatti, colui che aveva vissuto stoicamente, dormendo in terra tra alti pensieri e privazioni in nome del bene dello Stato, garantì la successione del figlio Commodo, pur conoscendone la natura ribelle e debosciata, le passioni sfrenate, l'esaltazione della propria persona e la scarsissima propensione alle regole.
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E Commodo, da novello "Ercole romano", non smentì le non edificanti aspettative paterne inaugurando un regno che perdurò per dodici anni (180-192), trionfo di efferatezze e corruzione con qualche accenno di rivalutazioni postume su presunte eccellenze (vedesi la decantata tolleranza verso il culto cristiano), dovute più al menefreghismo imperiale che alla reale volontà o geniale intuizione dell'individuo porporato. Questo perché Commodo era un fautore del panem et circenses, esaltando le folle capitoline con spargimenti di sangue nell'arena e spettacoli con le fiere in cui lui stesso amava esibirsi, portando avanti una sorda politica di terrore verso le istituzioni statali, prosciugando l'erario in feste e festini e alimentando il malcontento delle province e dei militari. In un clima di generale decadenza dei valori, proprio i pretoriani si resero conto di potersi riappropriare di un ruolo decisionale riguardo i destini dell'Impero, ruolo che avevano esercitato in precedenza con Caligola, Nerone, Galba e Domiziano partecipando più o meno attivamente in congiure e colpi di stato. E il 31 dicembre del 192 scoccò l'ora di Commodo che cadde strangolato o trafitto per opera di Narcisso, un gladiatore di successo, allenatore dello stesso imperatore. La congiura fu ideata da Quinto Emilio Leto, prefetto del pretorio, con la complicità del cubicularius Ecletto, della concubina Marcia, favorita di Commodo e di diversi senatori tra cui il nostro Cassio Dione.

Publio Elvio Pertinace, originario di Alba (attuale Piemonte), era figlio di un liberto. Possiamo definirlo un ragazzo eclettico, capace nei commerci di lana e di legname, tanto da meritarsi dal padre il soprannome di Pertinax, in grado di studiare fino a diventare un insegnante di grammatica, talmente tenace da arruolarsi nell'esercito, dimostrando doti non comuni di coraggio e una superlativa attidutide al comando. Dal 157 al 170, ritroviamo Pertinace impiegato come ufficiale lungo tutti i fronti di guerra più caldi: a Oriente contro i Parti al fianco di Lucio Vero, in Britannia, sul Danubio sotto Tiberio Claudio Pompeiano, in Germania nel pieno delle guerre marcomanniche, infine in Dacia. Era un uomo integro, un generale rispettato, leale verso i superiori e l'imperatore. Fu proprio Marco Aurelio a renderlo senatore con il grado di pretore. Tanti altri successi militari gli fecero ottenere nel 175 la carica di console e il governatorato delle due Mesie. Probabilmente Pertinace era il migliore, colui che, adottato da Marco Aurelio, avrebbe potuto continuare l'opera dell'imperatore filosofo nel segno della morigeratezza e dell'interesse di Stato. Ma il 180 fu l'anno di Commodo. Pertinace seppe andar d'accordo persino col figlio ribelle di Marco Aurelio, continuando a comandare eserciti, ottenendo la carica di praefectus Urbis nel 189 e quella di console nel 190 con collega proprio l'erculeo imperatore. Seppur fosse al corrente del generale malcontento cresciuto intorno alla figura di Commodo nei suoi ultimi anni di regno, decise di rimanersene in disparte. La scelta fu vincente.
La morte di Publio Elvio Pertinace dopo soli tre mesi di regno, scatenò a Roma una terribile guerra civile...

Quando Commodo fu definitivamente tolto di mezzo, il Senato guardò tra le proprie fila e scelse Pertinace come imperatore. Duro, inflessibile con oltre trent'anni di guerre sulle spalle, Pertinace indossò la porpora all'età di sessantasette anni. Aveva un fisico ancora vigoroso anche se caratterizzato da un addome prominente ("Historia Augusta") e da un leggero impedimento nel camminare (Dione Cassio). Portava una lunga barba bianca e curata. Di carattere era affabile seppur molti non lo ritenessero schietto. Possedeva fama di conclamata tirchieria soprattutto nei banchetti. In ogni caso era un uomo che faceva del carisma e della disciplina i suoi cavalli da battaglia. Si era guadagnato il rispetto della soldataglia, i più speravano che riuscisse a fare uguale anche con i pretoriani. L'avidità di questi ultimi era tanta e tale che Pertinace si ritrovò a promettere loro una cifra di denari che non possedeva essendo le casse statali vuote. Gli sfarzi commodiani avevano prosciugato l'erario. Non servì tentare di risvegliare l'orgoglio dei pretoriani. Quando Pertinace li arringò rispolverando concetti di coraggio, abnegazione e valore, quelli finirono per odiarlo, angosciati dalla nomea di spilorcio dell'imperatore e infastiditi dalle insinuazioni circa il loro "rilassamento", dovuto dall'indulgenza del precedente regnante. Pertinace se la prese anche con la propria corte, licenziando metà del personale di palazzo, per lui del tutto superfluo. Inaugurando una politica improntata al risparmio e alla moderazione, finì per scontentare persino il popolo.
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Non servì vendere tutte le proprietà di Commodo per acquietare i pretoriani. Questi organizzarono in risposta una bella congiura tentando di mettere sul trono uno dei consoli. Il tentativo andò a vuoto, sventato per miracolo all'ultimo istante. La storiaccia terminò con alcuni pretoriani condannati a morte. Il complotto non rese Pertinace più accorto. Anzi, egli continuò nella sua opera di ripristino dell'erario, promuovendo una sorta di "pace sociale" come testimoniato dalle sue monete che riportavano la frase "Al buon senso degno di lode". Purtroppo erano tempi difficili, segnati da un sostanziale scadimento di quei valori che avevano reso grande Roma. Un solo Commodo aveva annientato in un decennio o poco più, tutto quanto era stato fatto di buono da ben cinque imperatori. E Pertinace era pronto a pagarne il prezzo più alto. Il 28 marzo del 193 un nutrito e agguerrito gruppo di pretoriani irruppe nel palazzo imperiale. Il prefetto Quinto Emilio Leto, colui che aveva accompagnato l'ascesa di Pertinace, sapeva tutto. Allo scoppio dei primi tumulti, lo stesso Pertinace si era consultato con lui, ordinandogli di affrontare i sediziosi e trovare un accordo. Leto preferì uscire di scena prendendo la via di casa. A fin dei conti era stato proprio lui a incitare gli animi dei subalterni, già esasperati per le esecuzioni di qualche tempo prima e per il mancato pagamento di ulteriori donativi. Pertinace, compresa l'antifona, preferì attendere i rivoltosi. Aveva combattuto ai quattro angoli dell'impero, non era tipo da darsela a gambe. In compagnia del solo Ecletto, fermò la marmaglia e intavolò un lungo e grave discorso. La platea sembrò placarsi, tutta all'infuori di un certo Tausio che si atteggiava a capobanda. Questi urlò ai compagni per incitarli, poi prese una lancia e la scagliò con violenza in avanti, trafiggendo in petto il vecchio imperatore. Pertinace cadde a terra morente. Un attimo dopo i pretoriani si lanciarono su Ecletto. Il fedele cubicolario uccise un paio di soldati prima di soccombere. La testa di Pertinace fu portata in trionfo per le strade di Roma.

La morte di un uomo giusto e intenzionato a fare bene il proprio "mestiere" non chiuse la spirale di degrado e di vergogna che aveva attanagliato la società romana. Col senato terrorizzato dagli eventi, i pretoriani si fecero garanti dello Stato, mettendo all'asta il titolo imperiale. Due avvoltoi si gettarono a capofitto nelle contrattazioni: Flavio Sulpiciano, suocero di Pertinace, politico di lungo corso e Didio Giuliano, un ricchissimo senatore che non esitò a comprarsi la carica regale a suon di sesterzi. Il suo "mandato" durò un paio di mesi. I tempi erano infatti maturi per Settimio Severo, generalissimo fedele a Pertinace. Spinto dal desiderio di vendicare la morte dell'amico punendo gli scellerati pretoriani, scese in Italia, si liberò sul campo di battaglia degli oppositori e si prese l'Impero. Ma questa è un'altra storia...

Bibliografia essenziale e note:
  • "Fonti per la Storia Romana", Giovanni Geraci e Arnaldo Marcone. Le Monnier Università.
  • "Storia Romana", Giovanni Geraci e Arnaldo Marcone. Le Monnier Università.
  • "Passioni, intrigi, atrocità degli imperatori romani", Furio Sampoli. Newton Compton Editori 2007.
  • "Gli imperatori romani. Storia e segreti", Michael Grant. Newton Compton Editori 2008.
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